Addio a Enzo Jannacci

Siamo andati a letto tutti più banali e incavolati. Ma come si permette un accadimento così scontato come la morte di spegnere il genio di Enzo Jannacci? Impegnato come era nell'ultimo derby da vincere quello con la malattia. Il primo, il vero, è con la D maiuscola. Il Derby. La culla del cabaret, il suo mondo. Dove il talento di Vincenzo detto Enzo si intrecciava a quello di Gaber e Fo, Viola e Teocoli, Cochi e Renato. Milanese e milanista, Jannacci canta e suona, mangiando pasta scotta come fosse un principe, bevendosi la sua Milano fatta di nebbia poetica e personaggi bizzarri. Una Milano non ancora metropoli, la Milano da bere.
Scrive per tutti, soprattutto per gli ultimi. Dice cose di sinistra come quasi nessuno riesce a dire in cinquant'anni di carriera esagerata, masticata, sempre rigorosamente dal vivo. Incide 30 album sui quali passano un po' tutti gli stili, un po' tutti gli artisti, il controcanto di un pezzo di storia d'Italia. Bacia la sua donna come fosse l'unica, suo figlio Paolo con il quale celebra un'unione artistica di altissimo livello, come fosse il prodigo. Sorride, come ascoltasse sempre musica anche negli ultimi anni di una malattia che da medico comprende e combatte nella consapevolezza di poter ottenere al massimo un rinvio. E lavorando fino alla fine per dare alla morte quell'idea di averlo preso sano.

Roberto Chiesa

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