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Gli attacchi all'Arabia saudita sotto la lente di Michele Chiaruzzi su Treccani

21 set 2019
@treccani.it
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Sulla Treccani torna l'approfondimento di Michele Chiaruzzi, sugli attacchi condotti contro l’Arabia Saudita che per il docente sammarinese "sono stati un astuto gioco di prestigio per mezzo di azioni in un contesto di guerra. Per discuterne possiamo considerare proprio questi tre aspetti: astuzia, abilità, contesto". Di seguito il servizio.

Nel contesto della guerra, diceva Carl von Clausewitz, l’astuzia è un gioco di prestigio per mezzo di azioni, come il sofisma è un’illusione in fatto di idee (Vom Kriege, X). Gli attacchi condotti contro l’Arabia Saudita sono stati un astuto gioco di prestigio per mezzo di azioni in un contesto di guerra. Per discuterne possiamo considerare proprio questi tre aspetti: astuzia, abilità, contesto. L’astuzia è stata quella di mostrare con la violenza, ma senza vittime, che l’Arabia Saudita è incapace di difendere il proprio territorio da attacchi a distanza. Colpire con tale precisione e controllo il possessore di uno dei bilanci militari più grandi del mondo, alleato della principale potenza mondiale, afferma un concetto d’offesa e difesa esemplare. Traduce in pratica la capacità d’infliggere danni crescenti e insopportabili, grazie a una creatività strategica imprevista e – appunto – notevole astuzia. In caso di una rappresaglia contro l’Iran, tale capacità – è stato detto da fonti iraniane – «non sarebbe limitata alla fonte» diretta della rappresaglia. Essa colpirebbe a sorpresa tra i vari obiettivi americani e alleati nella zona del Golfo, almeno entro «duemila chilometri». L’astuzia, associata alla potenza, ha generato una condizione di deterrenza chiara e concreta che bilancia capacità militari sulla carta imparagonabili. Non solo: tale condizione contribuisce a divaricare le opzioni diplomatico-strategiche degli alleati dell’Arabia Saudita che, possibili bersagli di attacchi analoghi, mediteranno sui costi crescenti del proprio allineamento, come già hanno fatto gli Emirati con il loro disimpegno nello Yemen e un atteggiamento assai cauto proprio verso l’Iran. Il gioco di prestigio è stato quello riuscito a chi ha recato il maggior danno della storia alla produzione petrolifera saudita e mondiale, penetrando in profondità lo spazio saudita, ma celando finora la propria identità e le sue modalità. È l’incertezza, vera o voluta, su chi e come abbia portato attacchi così devastanti materialmente e simbolicamente. Essa è certamente destinata a scemare, o persino scomparire, quando, tra non molto, i calcoli balistici non di parte indicheranno per approssimazione i responsabili dell’attacco contro l’Arabia Saudita. Sia come sia, ciò non invalida affatto il successo di questo gioco di prestigio bellico. Il quale, come ogni gioco di prestigio, trova la sua ragion d’essere non nella durata del suo effetto, ma nell’istante del suo accadere, ciò che crea incertezza e disorientamento in chi vi assiste e talvolta, come stavolta, una sorta di panico paralizzante. Il contesto di guerra in cui gli attacchi contro l’Arabia Saudita s’inquadrano – terzo punto che merita attenzione – non è quello della guerra virtuale regolarmente minacciata dalla cosiddetta crisi tra Iran e Stati Uniti – uno strano concetto di crisi che dura dal 1979, ossia da quarant’anni. È invece quello di una guerra vera, quella dello Yemen, che infuria da quattro anni tra arabi, persiani e rispettivi alleati, yemeniti e non, generando un’ecatombe quotidiana sui corpi, le menti e le cose che hanno la sfortuna di trovarsi nello Yemen. L’attacco contro ARAMCO (Arabian American Oil Company) è stato il colpo più violento subito dall’Arabia Saudita da quando combatte la guerra dello Yemen. Ma neanche un danno storicamente ineguagliato alle infrastrutture petrolifere saudite e mondiali, un colpo di scena così clamoroso, ha riportato l’attenzione sulla guerra dello Yemen. Tantomeno della cosiddetta “opinione pubblica” che non se ne preoccupa particolarmente, costi quel che costi: persino il pieno di benzina, l’unico problema che sembra degno d’attenzione. Cosicché a taluni spetterebbe il compito di ricordare, pacatamente, che Arabia Saudita e alleati sono in guerra su un fronte bellico quadriennale senza esclusione di colpi, sanguinoso e letale. A quei colpi essi partecipano copiosamente e senz’indugi, contribuendo, insieme agli antagonisti, a ramificarne gli effetti. Tutti gli sforzi e le speranze di mediazione nello Yemen sono stati finora frustrati e l’attacco all’Arabia Saudita non sarà certo un viatico di pace. La guerra yemenita è un orribile disastro umano con milioni di profughi, ammalati, affamati e migliaia di morti. Proprio le Nazioni Unite ritengono che i combattenti locali di «Ansar Allah», cosiddetti Houthi, sostenuti dall’Iran, abbiano ormai sviluppato capacità militari in grado di colpire a maggiori distanze di quelle raggiunte finora, forse fino a 1.500 km: Riyad, Abu Dhabi o Dubai. Sarebbe perciò utile abbandonare sofismi e illusioni su quella guerra e considerare il suo lacerante effetto sul conflitto politico che dilania il Golfo, del quale lo Yemen rappresenta il fronte principale. Sarebbe intelligente capire che – in tale contesto – non esistono soluzioni militari durevoli al posto di una diplomazia ragionevole, prove di forza finali al posto di accomodamenti parziali. Occorrerebbe soprattutto ricordare che il nemico, chiunque esso sia, non è stupido: il nemico è intelligente e persino sorprendente; ciò vale per tutti, sempre.


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