“Sono un condannato a morte” - La strage di Capaci

Erano le 17.58, quel 23 maggio di 21 anni fa; Giovanni Falcone era alla guida di una fiat croma blindata, al suo fianco la moglie, Francesca Morvillo. Chissà a cosa stava pensando - nel tragitto dall'aeroporto a Palermo - l'eroe del Pool antimafia; Giovanni Brusca premette il pulsante e il cemento dell'A29 inghiottì la sua auto e quella della scorta. 400 chili di tritolo per annientare – una volta per tutte – l'uomo che aveva osato scatenare contro la Mafia una lotta senza quartiere, senza compromessi. La condanna a morte fu firmata da Totò Riina e dagli altri padrini della Commissione Provinciale di Cosa nostra. Tra loro anche un giovane determinato, ambizioso: Matteo Messina Denaro, l'ultimo dei boss ancora a piede libero. Era il primo atto di un sanguinario attacco al cuore dello Stato che avrebbe portato alle bombe di Firenze, Milano e Roma del '93. Ma prima, a poche settimane dal martirio di Falcone, un altro eroe italiano doveva pagare per la sua guerra irriducibile alla Mafia.
“Sono un condannato a morte”: l'aveva ripetuto più volte, Paolo Borsellino, prima che una 127 carica di esplosivo – parcheggiata sotto casa della madre - facesse scempio di lui e di 5 agenti della sua scorta.

Gianmarco Morosini

I più letti della settimana:

Questo sito fa uso di cookie, anche di terze parti, necessari al funzionamento e utili alle finalità illustrate nella privacy e cookie policy.
Per maggiori dettagli o negare il consenso a tutti o alcuni cookie consulta la nostra privacy & cookie policy