Tra le atrocità che si consumano a Gaza e in Cisgiordania, una delle “notizie migliori”, se così si può dire, è che migliaia di persone, soprattutto bambini, stanno sopravvivendo alle bombe e ai massacri riportando amputazioni, traumi permanenti e nuove disabilità, significa che sono ancora vive. Queste persone si aggiungono a chi già viveva in quelle terre con una condizione di fragilità e che oggi, privato di cure, ausili e accesso ai beni essenziali, è letteralmente condannato a una sopravvivenza disumana. Eravamo già intervenuti mesi fa, per denunciare il dramma di Gaza e ribadire il dovere di non tacere, e torniamo a parlare con rinnovata preoccupazione. Sono sempre più frequenti gli appelli delle organizzazioni internazionali che si occupano di disabilità, esprimendo forte allarme per la situazione umanitaria nella Striscia. In questi comunicati si sottolinea come le barriere fisiche, ambientali e sociali rendano impossibile mettersi in salvo o accedere a un’assistenza di base, mentre la distruzione delle infrastrutture, la mancanza di ausili e l’interruzione dei servizi sanitari condannano le persone con disabilità e le loro famiglie a una condizione di isolamento e vulnerabilità estrema, se non alla morte. La crudeltà, mai vista prima, con cui si negano gli aiuti umanitari ci porta a riflettere ancora una volta su quanto inutili siano state le lezioni del passato: ogni volta che la società tollera vite considerate meno degne, ogni volta che il mondo volta lo sguardo di fronte a chi resta indietro, si riapre la stessa ferita che i totalitarismi del Novecento hanno inciso nella storia. Essi ci ricordano fino a che punto le ideologie politiche possano deformare l’idea stessa di umanità, arrivando a negarne la dignità. Fascismo, nazismo, franchismo, stalinismo, maoismo: regimi diversi che condividevano lo stesso tratto comune, valutare le persone non per ciò che erano, ma per la loro utilità allo Stato. Dentro questa logica disumana, la disabilità e la malattia venivano trattate come scarti, come un peso, come vite senza valore. In Italia, il fascismo di Mussolini esaltava il mito dell’uomo nuovo: forte, atletico, obbediente, disciplinato. Chi non corrispondeva a quell’immagine veniva relegato all’emarginazione. Non si arrivò a un programma di sterminio, ma si costruì un sistema di esclusione fatto di istituti, barriere scolastiche e lavorative, invisibilizzazione costante. Il nazismo spinse quell’odio fino all’estremo. Hitler trasformò la disabilità in questione di politica pubblica, varando il programma Aktion T4: tra il 1939 e il 1941 oltre 200.000 persone furono assassinate in cliniche e ospedali, considerate “vite indegne di essere vissute”. Eugenetica, sterilizzazioni forzate, esperimenti medici e sterminio segnarono una delle pagine più atroci della storia contemporanea. La dittatura franchista in Spagna scelse invece la via della beneficenza e della carità, senza mai riconoscere veri diritti. Le persone con disabilità venivano nascoste in ospizi e istituti religiosi, silenziate ed escluse dalla società civile. Nell’Unione Sovietica, il mito dell’uguaglianza si scontrò con un sistema produttivista che misurava l’uomo solo in base al rendimento economico. I reduci mutilati della Seconda guerra mondiale vennero allontanati dalle città e confinati in istituti perché rovinavano l’immagine di forza dell’Armata Rossa. Chi non poteva tornare a produrre era condannato alla marginalità. Il maoismo in Cina non fu diverso. Lo slogan “servire il popolo” si traduceva in un unico criterio di valore: la capacità di produrre. Chi non poteva lavorare veniva abbandonato alla miseria rurale, alla mendicità, all’isolamento, senza alcun riconoscimento di diritti. In tutti questi regimi, le persone più fragili divennero lo specchio scomodo della vulnerabilità umana, che il potere non voleva né vedere né ammettere. Tutti negarono la verità più elementare: la dignità non dipende dall’utilità, ma dall’essere umano in quanto tale. Ricordare queste vicende non è un esercizio accademico: è un allarme per l’oggi. Ogni volta che si tollerano discorsi che riducono le persone a numeri, a standard di perfezione, a pesi sociali, si riattiva la stessa logica che portò alla segregazione, allo sterminio e alla cancellazione. Per questo la memoria deve diventare resistenza etica: perché mai più la disabilità, o qualsiasi altra condizione, venga condannata come “una vita indegna di essere vissuta”. Quel “mai più” che la storia ci consegna, purtroppo, risuona ancora oggi. A Gaza, migliaia di vite vengono cancellate come se valessero meno: bambini, donne, persone con disabilità muoiono sotto le bombe o nella fame, e troppo spesso il mondo resta in silenzio. Allo stesso tempo, assistiamo in molte parti del mondo a una crescente deriva di poteri che alimentano nazionalismi aggressivi, discriminazioni e disuguaglianze, riproponendo, con altri volti e parole, la stessa logica disumana del passato. Non si tratta di fare paragoni facili, ma di vedere i fili comuni: ogni volta che una società accetta l’idea che la vita di qualcuno conti meno, ogni volta che si giustifica l’oppressione in nome della forza, della sicurezza o della purezza, siamo di nuovo sull’orlo dello stesso baratro. Per questo, come piccola associazione che si batte per i diritti e la dignità di tutte le persone, sentiamo il dovere di non tacere di fronte a questo genocidio. La memoria storica ci chiede di essere vigili. Il presente ci impone di essere attivi. Il futuro ci reclama la responsabilità di dire ad alta voce che ogni vita conta, che ogni vita è degna e che non ci possono essere eccezioni nella Memoria.
c.s. Attiva-Mente