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Don Mangiarotti: Rimettiamo tutto in discussione

30 gen 2021
Don Mangiarotti: Rimettiamo tutto in discussione

«C’è una cosa peggiore di un’anima cattiva, è avere un’anima abituata»: ricordo questo pensiero che mi accompagna spesso guardando la realtà e i rapporti con tante persone. Un’anima abituata, che sa solo ripetere schemi, non si sa mettere in gioco, e cataloga ed etichetta tutto ciò che incontra, magari poi facendosi paladino del dialogo tra gli uomini). Una volta un amico, rispetto a un testo che gli avevo offerto (e che avevo scritto con un esperto) mi disse che, per principio, non l’avrebbe letto. E questo fa la differenza tra me e lui. Forse si potrà perdere del tempo, ma non mi è mai accaduto di non potere imparare da un serio confronto negli incontri che ho vissuto. Ho trovato questi pensieri di un grande uomo, Péguy, su una raccolta di testi curata da Carrón, che mi pare suggeriscano a noi, chiamati a ragionare sulla vita e sull’amore, sulla nascita e sulla morte, buone osservazioni: «La condizione preliminare, indispensabile, senza la quale si può diventare storici della filosofia, ma senza la quale non si può, non si è un vero filosofo è che almeno una volta si sia rimesso tutto in discussione. Personalmente, sotto la propria responsabilità, per proprio conto, a proprie spese, a proprio rischio. Allo stesso modo, non si è un vero artista se non si è rimesso in discussione per proprio conto i dati precedenti. Ma, più profondamente che nell’arte, e più profondamente che nella filosofia, non si è un uomo se almeno una volta nella vita non si è rimesso tutto in discussione. Sventurato chi non ha almeno una volta, per un amore o per un’amicizia, per una carità, per una solidarietà, rimesso tutto in discussione, messo alla prova gli stessi fondamenti, analizzato per proprio conto gli atti più semplici. Sventurato e poco rivoluzionario.» Sembra che qui in Repubblica, di fronte a una crisi che credo non abbia precedenti (dalla salute alla economia, fino alla possibile estinzione per l’inverno demografico che è da tempo iniziato), l’unica preoccupazione sia quella di esaltare dei diritti a senso unico, sganciati da ogni riferimento alla responsabilità per i gesti che si compiono, che fanno esaltare l’aborto come una autentica conquista di civiltà. E ove il massimo della prudenza fa solo dire: «Io non lo farei, io sono a favore della vita, ma non posso impedire a nessuno di compiere questo gesto». Giusto, anch’io sono contrario a ogni tipo di delitto (e la Chiesa chiama l’aborto «orrendo crimine» e Papa Francesco lo definisce l’opera di un sicario), ma perché impedire a chi lo voglia di compierlo? Siamo liberi, no? Penso che non sia – almeno in buona parte dei casi – un gesto fatto a cuor leggero, e che quindi nessuno possa permettersi di sputare sentenze senza comprensione né misericordia. Ma penso pure che la misericordia (e la giustizia) vadano esercitate anche nei confronti di chi, indifeso, viene arbitrariamente tolto di mezzo. Non solo, ma perché non è possibile interrogarsi sul senso autentico dell’amore tra l’uomo e la donna, quell’amore che rende ogni atto d’affetto e di comunione un capolavoro di bellezza? Tempo fa, papa Giovanni Paolo II parlava della «sana ambizione che è l’ambizione di essere uomo». Ed è proprio questa sana ambizione che ci fa riconoscere che «non si è un uomo se almeno una volta nella vita non si è rimesso tutto in discussione». E se questo deve accadere per chi professa una concezione religiosa della vita, perché non può valere anche per chi si professa laico e obbediente solo ai principi della sana ragione? È questo il tempo non degli steccati e delle ideologie, ma di una autentica compassione per ogni uomo, che è già tale dall’istante del concepimento. Come ricorda Abby Johnson, passata dall’essere dirigente della Planned Parenthood – una delle più grandi e potenti organizzazioni per la pratica e la diffusione dell’aborto, e non solo in America – a posizioni di difesa della vita, di ogni vita, contro la cultura e la pratica dell’aborto: «Se avessi un bambino? Non era ovvio che avessi già un bambino che cresceva dentro di me? Una volta che sei incinta non ci sono se. Quel bambino, per quanto minuscolo e in uno stadio iniziale di sviluppo, esiste già! Ancora però non lo vedevo. Ciò che vedevo, come tendevano a fare le altre giovani donne dell’organizzazione, era la mia condizione di gravidanza, non che fossi madre di un bambino dipendente da me per il suo sostentamento. È incredibile quanto la semantica possa plasmare il pensiero.» Non la semantica, ma la verità ci renderanno liberi e protagonisti, per un bene di ciascuno di noi e di tutta la nostra cara «Antica terra della libertà».

Don Gabriele Mangiarotti


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