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Don Mangiarotti: "Speriamo che non sarà tutto come prima"

8 apr 2020
Don Mangiarotti: "Speriamo che non sarà tutto come prima"

Non ho le competenze per valutare le misure anti Covid_19, e francamente credo che anche i tanti che ne parlano seguono più dei pareri che delle autentiche e motivate ragioni. Ma non vedo qui il problema, anche se, di fronte a tante variegate posizioni, mi rende sospettoso il tacciare di «fake news» coloro che hanno opinioni diverse. Sì, perché con questa storia si vuole mettere il bavaglio alle idee, e questo può dare inizio a un brutto periodo per la libertà, la democrazia, il rispetto di ogni uomo, cancellando ciò che costituisce la grande conquista della civiltà dopo le tragedie del nazismo e del comunismo. E per chi ha anche solo un po’ di memoria storica (e non bastano le ripetute Giornate della Memoria, per ridestare una coscienza attuale, non per identificare come nemici realtà differenti) sarebbe ottima cosa scoprire e denunciare le radici (quelle sì ancora attuali) di una cultura che ha generato le diverse forme di totalitarismo. Vorrei però fermarmi a considerare un aspetto che, se da un lato tocca giustamente i credenti, i cattolici in particolare, dall’altro deve fare riflettere tutti coloro che amano la libertà dell’uomo, non solo quella privata, ma le sue caratteristiche civili. Prendo in considerazione la questione della Messa, tema dibattuto sia a livello politico (in Italia l’On. Salvini ne ha fatto oggetto di una richiesta pubblica) come religioso (abbiamo ascoltato da poco le considerazioni di due Cardinali: il Presidente della CEI Bassetti, e il Vescovo di Bologna, Zuppi). In più, abbiamo ascoltato Bill Gates, che addirittura vorrebbe escludere tutti i cattolici dal livello pubblico della vita finché non saranno tutti vaccinati, come le esternazioni di Fiorello, per cui per essere fedele non è necessario andare in chiesa, perché si può pregare anche andando in bagno… Personalmente mi pongo questa semplice domanda: ci rendiamo conto delle conseguenze di quanto affermiamo? Perché se la salute diventa il bene primario (e non conta che questo implichi pure il diritto assoluto di uccidere il bimbo che una madre si porta in grembo se ha deciso di abortire) e se tutti si sentono in diritto di definire ciò che è essenziale per essere un buon credente, trasformando i gesti della fede in optionals da sacrificare in nome di una salute pubblica diventata unico criterio di valore, ci rendiamo conto che qualcosa, nella mentalità e nel costume sta cambiando? E se cambia, ci chiediamo se verso un bene maggiore o cancellando quelle conquiste di civiltà che ci hanno reso fieri dei tempi in cui viviamo? Beninteso, non che tutto, prima del Coronavirus, andasse bene: la cultura dello scarto, la onnipotenza del denaro e della finanza, la corruzione dei costumi e la dissoluzione della famiglia (chiamata «tradizionale», con una vena di disprezzo per chi la considera ostinatamente formata da un uomo e una donna), l’assenza di un dialogo costruttivo nel campo della educazione e della vita sociale, uno statalismo sempre più invadente, sono tutti fattori che ci chiedono non di ritornare a uno status quo ante, ma di costruire un cammino migliore nella cultura e nella convivenza. Il clima di sospetto e di delazione, da un lato, e il superficiale ottimismo dall’altro, certo non lasciano presagire buoni risultati. Mentre la capacità di sacrificio di tante persone (e non solo nel campo medico) e la creatività sociale e comunicativa, unita a forme commoventi di gratuità per permettere a fanno sperare che si apra una nuova stagione: appunto quel «cambiamento d’epoca» vissuto non più con lo sguardo impotente di chi rinuncia ai principi che lo hanno sostenuto finora per abbracciare un mutamento senza effettive ragioni, ma vissuto come l’alba di una umanità che, ritrovando le radici autentiche nella tradizione umanistica e cristiana che ci hanno donato eroi e santi, sa vivere il presente come occasione di una ripresa autenticamente umana. Allora credo che, invece che fermarci a sostenere gli inviti (doverosi) alla prudenza e ai sacrifici necessari, sarebbe buona cosa aprire una strada di bene e di riflessione critica, perché capace di leggere i segni dei tempi. Non è certo di prediche né di moralismi acritici ciò di cui abbiamo bisogno. E questo lavoro si potrà fare insieme, mettendosi all’opera riconoscendo i valori comuni e le potenzialità di ciascuno, secondo questa bellissima immagine di uno scrittore russo, che ha attraversato le tragedie dei lager e le ha raccontate indicando traguardi di speranza. «Come viene aperta una strada nella neve vergine? Un uomo avanza per primo, sudando e imprecando, muove con difficoltà una gamba poi l’altra, e sprofonda ad ogni passo nello spesso manto cedevole. L’uomo è sempre più lontano e nere buche irregolari segnano il suo cammino. Stanco, si allunga sulla neve, accende una sigaretta e il fumo della machorka si espande lentamente in una piccola nuvola azzurrina sopra la bianca neve scintillante. L’uomo è già andato oltre, ma la nuvoletta resta sospesa là dove si era fermato a riposare: l’aria è quasi immobile. Per aprire una strada si scelgono sempre delle giornate calme, affinché i venti non spazzino via le opere degli uomini. L’uomo sceglie da sé i punti di riferimento nell’infinità nevosa: una roccia, un albero alto, e come il timoniere che conduce la barca lungo il fiume, da un promontorio all’altro, così l’uomo sposta il suo corpo attraverso la neve. Sulla pista stretta e labile che ha segnato avanzano, spalla contro spalla, cinque o sei uomini. Tutti posano il piede non nella traccia ma accanto ad essa. Quando raggiungono un punto convenuto in precedenza, fanno dietro front e ritornano sui propri passi, sempre badando a calpestare la neve intatta, là dove l’uomo non ha ancora posato il suo piede. La via è tracciata. Altre persone, e slitte e trattori possono percorrerla. Se si camminasse, passo dopo passo, nella traccia del primo, si otterrebbe un cammino visibile ma stretto e a stento praticabile, un sentiero e non una strada, delle buche nelle quali arrancare ancora più faticosamente che nella neve vergine. Per il primo la fatica è maggiore che per tutti gli altri e quando non ce la fa più uno del quintetto di testa passa avanti. Ognuno di quelli che seguono la traccia, anche il più piccolo, il più debole, deve posare il piede su di un lembo di neve vergine e non nella traccia di un altro. Quanto ai trattori e ai cavalli, non sono per gli scrittori, ma per i lettori.» (Varlam Šalamov I racconti della Kolyma)

c.s. Don Gabriele Mangiarotti


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