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Il declino è una scelta, non un destino di Gabriele Mangiarotti

18 feb 2021
Il declino è una scelta, non un destino di Gabriele Mangiarotti

Ci sono alcuni pensatori che riescono ad esprimere giudizi sulla realtà e sulla mentalità contemporanea che smascherano il politically correct, suggerendo criteri che indicano una prospettiva diversa sul nostro presente. È il caso di Bruce Thornton, citato dal sempre acuto Giulio Meotti. «La sinistra utopica ha sempre cercato di distruggere il più possibile il regime precedente. La Rivoluzione francese ha stabilito il modello, cambiando i nomi dei mesi e scartando la pratica di tenere traccia del tempo storico basandola sulla vita di Cristo. Più recentemente lo abbiamo visto nella Cina comunista, con le sue varie “rivoluzioni culturali”, e in Cambogia sotto il regime di Pol Pot. Orwell comprese questa dinamica e la espresse in ‘1984’: “Se il Partito poteva mettere la mano nel passato e dire di questo o quell’evento che non sarebbe mai successo - quello, sicuramente, era più terrificante della semplice tortura e morte… E se tutti gli altri accettavano la menzogna imposta dal Partito - se tutti i documenti raccontavano la stessa storia - allora la menzogna passava alla storia e diventava verità”.» Ho riconosciuto la puntuale precisione di queste riflessioni vedendo come, da parte di alcuni sostenitori dell’aborto come diritto della donna (e al solito pure escludendo ogni riferimento all’uomo con cui il figlio è stato concepito e, soprattutto, escludendo ogni ipotesi che il figlio in grembo - lui, il senza voce! - abbia qualche diritto di cui tenere conto), cercano di manipolare lo stesso discorso, cambiando e nascondendo il significato autentico delle parole. Ci si illude che chiamando «feto di tot settimane», piuttosto che «bambino concepito», come per incanto l’uccisione di un essere umano diventa qualcosa di cui non provare vergogna né rimorso. Anzi, si accusano coloro che ritengono che la coscienza della madre non dimentica così facilmente la tragedia di cui si è resa colpevole, di avere un giudizio distorto della realtà stessa, a motivo della volontà – ideologica – di colpevolizzazione. Ma quello di cui stiamo parlando riguarda tutta la concezione della vita umana, e incide profondamente sulla cultura e sulla stessa educazione. Tornare spesso sul tema della difesa della vita, di ogni vita, in ogni circostanza e situazione può apparire una insistenza esagerata su un argomento che la cosiddetta storia avrebbe già risolto e si viene spesso etichettati come passatisti, nostalgici di un’epoca che è oramai stata cancellata dall’evoluzione della modernità. Ma perché non pensare che, proprio per la stima degli interlocutori e della stessa forza della ragione, non si possa riconoscere che un cambiamento di direzione è un bene? Del resto questo pensiero fa parte del DNA della mentalità comune, che riconosce continuamente che il cambiamento è meglio della conservazione. Per citare poi il Papa tanto applaudito dai nostri contemporanei, perché non riconoscere che l’«iniziare processi» può volere dire anche il contrario di quello che tutti dicono e pensano e quindi iniziare il processo che salvaguarda ogni vita, piuttosto che distruggerla? Vorrei finire con un autore che ha saputo leggere con libertà quanto stava accadendo sotto i suoi occhi. Penso che Pasolini abbia ragione quando legge, nel rifiuto della storia e del rapporto con i padri, la radice di un regresso nella civiltà. Ecco: «Concludo amaramente… Sono saltate fuori le vecchie facce da preti, da giudici, da ufficiali, da anarchici fasulli, da impiegati buffoni, da Azzeccagarbugli, da Don Ferrante, da mercenari, da imbroglioni, da benpensanti teppisti. Cioè la condanna radicale e indiscriminata che essi hanno pronunciato contro i loro padri - che sono la storia in evoluzione e la cultura precedente - alzando contro di essi una barriera insormontabile, ha finito con l’isolarli, impedendo loro, coi loro padri, un rapporto dialettico. Ora, solo attraverso tale rapporto dialettico - sia pur drammatico ed estremizzato - essi avrebbero potuto avere reale coscienza storica di sé, e andare avanti, «superare» i padri. Invece l’isolamento in cui si sono chiusi - come in un mondo a parte…- li ha tenuti fermi alla loro insopprimibile realtà storica: e ciò ha implicato - fatalmente - un regresso. Essi sono in realtà andati più indietro dei loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi, e, nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie che parevano superate per sempre». (P.P. Pasolini, Scritti corsari, p. 10) La storia della nostra «Antica terra della libertà» non può essere cancellata né le parole che ci hanno commosso possono essere manipolate impunemente. Non siamo coloro che nella terra dell’utopia di Orwell affermano con testardaggine «LA GUERRA È PACE. LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ. L’IGNORANZA È FORZA». Abbiamo i piedi per terra, e sappiamo con s. Agostino, che «Se l’ultimo giorno non ti troverà vincitore, ti trovi per lo meno ancora combattente, non catturato e fatto schiavo. […] Perciò, fratelli, finché viviamo, lottiamo per conservare la vera fede, per essere nella vera Chiesa di Dio, per condurre una vita retta».




 Don Gabriele Mangiarotti


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