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Brexit nell'interesse nazionale. Di quale nazione? di Michele Chiaruzzi

27 gen 2017
Michele Chiaruzzi
Michele Chiaruzzi
In ‘Fumo di Londra’, diretto nel 1966 da Alberto Sordi, un modesto antiquario perugino, Dario Fontana, si reca a Londra per conoscere da vicino l’adorata Inghilterra. Dopo una rocambolesca vicenda, conclude in modo imbarazzante la sua avventura. Oggi è il fumo da Londra che colpisce lo spettatore della politica. I protagonisti di Brexit faranno la fine di Fontana? In effetti la vicenda sembra evocare, man mano che si avviluppa, generi sempre diversi. Se non fosse per il serio tenore politico della questione gli ultimi episodi ricorderebbero certi tratti della commedia dell’arte. Di certo colpisce una dirompente formula comune: l’irruzione delle donne sul palcoscenico.
Dopo il torvo discorso del 17 gennaio scorso, Theresa May, Primo ministro britannico, è ritornata sulla scena politica d’Europa. Stavolta accade involontariamente, in una situazione imbarazzante, allorquando è stato stabilito che il suo governo non può dare esecuzione al percorso di separazione dall’Unione europea. La Corte suprema di Londra ha disposto, in via definitiva, che la notifica dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona per l’avvio dei negoziati per l’uscita dall’Unione europea dovrà infine essere autorizzato da un voto del Parlamento britannico ma non di quello gallese, nord-irlandese e scozzese.
È proprio da quest’ultimo passaggio che si evince un dato politico cruciale ma talvolta trascurato, aldilà dell’imbarazzo governativo e dell’incerto futuro creato dalla sentenza. Il devastante impatto del processo avviato con la Brexit dal Governo inglese rischia d’incendiare, come fosse una vampata di ritorno, non solo l’Europa unita bensì il Regno Unito. In effetti Theresa May ha richiamato nel suo discorso del 17 gennaio un concetto certo venerabile ma ambiguo e, in questa situazione, incandescente: l’interesse nazionale. Nel negoziato con l’Unione europea ha affermato ruvidamente che «il Governo non subirà pressioni per dichiarare nulla che non sia ciò che io intendo dire nel nostro interesse nazionale». La questione cruciale posta da Brexit è: l’interesse di quale nazione? Su questo dilemma s’innescano oggi tensioni che attraversano le isole britanniche.
È difatti accaduto che nell’ottobre scorso un’altra donna, il Primo ministro scozzese Nicola Sturgeon, aveva ben chiarito il proprio pensiero politico sull’eventuale uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, poi ribadito recentemente. «Se qualcuno pensa, anche solo per un istante, che io non sia seriamente intenzionata a fare ciò che è necessario fare per proteggere gli interessi della Scozia, allora è bene che rifletta ulteriormente». Fu una riflessione rivolta verso Londra, all’indirizzo del Primo ministro inglese dal Primo ministro di una delle nazioni costitutive del Regno Unito. La signora Sturgeon chiarì che «se qualcuno non può, o non vuole, permetterci di difendere i nostri interessi nel Regno Unito allora la Scozia avrà di nuovo il diritto di decidere se essa intende seguire una strada differente». Questa chiara allusione politica fu il preludio alla decisione del Governo di Dublino di depositare una nuova proposta di legge per celebrare un secondo referendum sull’indipendenza scozzese dal Regno Unito. Accade dunque che la Scozia reclami la decisione di difendere il proprio interesse nazionale definito nell’appartenenza non solo al Regno Unito bensì all’Europa unita. D’altra parte, e forse ancor più stridente, è la questione che oggi investe l’Irlanda del Nord, laddove l’accordo del Venerdì Santo a suggello del processo di pace è legato all’adesione europea del Regno Unito la quale, tra l’altro, consente tuttora l’esistenza di un confine ‘europeo’ con l’Irlanda, Stato dell’Unione.
Naturalmente il Regno Unito esisteva prima dell’Unione Europea e potrà certamente esistere anche dopo – questo è ovvio. Ciò detto, nella fumosa politica di Brexit non sembra ancora chiaro come affrontare questi fatti. L’incertezza è dominante, eppure sembra sempre più svelarsi uno degli esiti politici della decisione del Governo inglese sulla Brexit: aver posto le condizioni per una crisi dell’unione britannica, oltre a quella dell’Unione europea. In una classica ironia della politica, l’imprudente scelta dei Conservatori inglesi ha generato anche questo effetto imprevisto e perverso. Sarebbe paradossale che il peggior nemico del Regno Unito nel XXI secolo si rivelasse in un’insospettabile «quinta colonna», il Governo inglese.
Sia come sia, David Davis, Segretario di Stato per l’uscita dall’Unione europea, ha ripetuto dopo la sentenza della Corte che nulla cambia perché il “punto di non ritorno” per Brexit è ormai passato. Se nulla cambierà è da vedersi; che si sia giunti a un punto di non ritorno potrebbe anche essere vero. Ma questo punto non è solo quello in cui la giovane unione degli Stati d’Europa rischia la disintegrazione; è anche quello dove la vecchia unione delle isole britanniche rischia la frantumazione. Se così fosse il fallimentare gioco d’azzardo di David Cameron e successori avrebbe raggiunto il nadir della propria futilità, passando alla storia come la peggior bancarotta politica d’oltremanica.

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