Tre misure cautelari per caporalato a Ancona e Macerata

Tre misure cautelari per caporalato a Ancona e Macerata.

Arresti domiciliari e obbligo di dimora sono le misure cautelari adottate nei confronti di tre cittadini pakistani, residenti a Curpramontana (Ancona) e Cingoli, dove aveva base, secondo gli investigatori dei carabinieri del Nil (Nucleo Ispettorato del Lavoro) di Pesaro Urbino, Ancona e Macerata, un sodalizio dedito al caporalato, cioè intermediazione illecita e sfruttamento di manodopera. Il provvedimento, emesso dal gip del Tribunale di Ancona, su richiesta della Procura, trae origine da un'attività investigativa avviata e condotta, dal giugno 2021, dai carabinieri del Nil di Pesaro Urbino, attivati da una pattuglia dei militari della Stazione di Mondavio, che in un posto di controllo alla circolazione stradale, ha scoperto un furgone con a bordo 8 persone che riferivano di essersi recati a lavoro nei campi della zona come braccianti agricoli.

Le indagini, coordinate dalla Procura di Ancona, hanno individuato il sodalizio finalizzato a monopolizzare il mercato del lavoro agricolo nelle province di Ancona, Macerata e Pesaro Urbino. La mano d'opera era composta prevalentemente da richiedenti asilo (pakistani o bangladesi), reclutati a basso costo e destinati al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, per avere un contratto di lavoro e tentare così il rinnovo del permesso di soggiorno. A Cupramontana si trovava la sede operativa, a Cingoli gli alloggi di fortuna ove veniva ospitata, in condizioni di degrado, la manodopera sfruttata.

Dalle indagini è emerso che ai lavoratori veniva offerta un compenso orario di 5-6,50 euro, a fronte di un impiego giornaliero di 10-12 ore, senza rispettare le norme su salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Le vittime erano alloggiate in casolari in stato di abbandono, in aperta campagna, in pessime condizioni igienico-sanitarie e per avere un giaciglio di fortuna erano costrette a pagare 150 euro al mese. La busta paga appariva formalmente corretta ed in linea con i Ccnl, ma tutti i dipendenti erano poi costretti a restituire parte della retribuzione, anche attraverso la minaccia di perdere il lavoro.

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