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Uno Bianca: il fratello di uno dei Carabinieri uccisi chiede la riapertura delle indagini

4 gen 2021
Il processo Uno Bianca (foto archivio)
Il processo Uno Bianca (foto archivio)

Carlo Lucarelli lo definì "un agguato pensabile solo in Afghanistan o in zone di mafia". Avvenne invece in periferia di Bologna e morirono Andrea Moneta, Mauro Mitilini e Otello Stefanini, tre carabinieri ventenni massacrati la sera del 4 gennaio 1991 al Pilastro, sotto una pioggia di 222 proiettili. I colpi furono sparati dai killer della Banda della Uno Bianca, che tra il 1987 e il 1994 seminò una scia di sangue tra Bologna, Romagna e Marche, con 24 morti e oltre 100 feriti. Il sacrificio dei tre militari è ricordato da un cippo in via Casini, dove ogni anno i familiari delle vittime, rappresentanti dell'Arma e delle istituzioni si ritrovano a commemorarli.


Quest'anno, a causa delle norme di contenimento del Covid-19, i parenti, che vivono in altre città, non potranno essere presenti alla cerimonia del trentesimo anniversario, dove è atteso il comandante generale dell'Arma, Giovanni Nistri. "Non esserci è per noi una grande sofferenza", dice all'ANSA Ludovico Mitilini, fratello di Mauro. A distanza di tre decenni è convinto che alla ricostruzione della storia manchino dei pezzi: "Siamo di fronte a una verità monca, ci sono lati oscuri: per questo da parte di alcuni familiari sarà fatta una richiesta formale di riaprire le indagini". Secondo Mitilini, nella sentenza del 1997 "ci sono elementi che destano perplessità, testimonianze non valorizzate per quello che erano".

Tra i punti segnalati, il fatto che la Corte di assise "ha creduto alla versione dei Savi (i leader del gruppo criminale) che affermarono 'i tre carabinieri furono uccisi per impossessarsi delle loro armi' eppure i membri della banda avevano a disposizione un arsenale, non c'era bisogno di rubarle ai Carabinieri. C'è poi il tema di un'ordinanza del questore di Bologna che disponeva "una vigilanza fissa delle forze dell'ordine innanzi alla ex scuola Romagnoli, colpita nei giorni precedenti da una molotov. Non è chiaro, allora, come mai i carabinieri si fossero spostati in via Casini, dove furono assassinati, luogo 'non limitrofo' ed abbastanza distante dall'obiettivo da vigilare. Tra le testimonianze non sufficientemente valorizzate, a suo avviso, quelle di chi vide i killer, dopo la strage, salire su un'Alfa guidata da un 'quarto uomo' mai identificato.  Restano dubbi anche sulla modalità dell'assassinio: "Dopo aver colpito i carabinieri, con una pioggia di fuoco, non scapparono, anzi, continuarono a sparare assicurandosi che i tre fossero morti, quindi, probabilmente, l'obiettivo di quella sera del 4 gennaio 1991 era proprio uccidere tre giovani carabinieri".

A dirsi "un po' sorpresa" dalle parole di Mitilini è Rosanna Zecchi, presidente dell'associazione delle vittime. "A febbraio, prima che scoppiasse la pandemia, avevamo fatto una riunione e avevamo stabilito tutti insieme, all'unanimità, di aspettare la digitalizzazione degli atti. Poi - aggiunge - oggi ha ritenuto di fare queste dichiarazioni, a titolo personale, è libero di farlo. Cerchiamo anche noi la verità, il nostro obiettivo è questo, ma non esageriamo. Non abbiamo mai messo in discussione la Procura e quello che ha fatto il dottor Giovannini", il pm che fece le indagini sui delitti bolognesi che ha auspicato, come lei, che gli atti siano presto digitalizzati.


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