L'ultima curva di Marco Simoncelli

Una scivolata stupida, perdendo l’anteriore come accade 100 volte in carriera. Uno scarto, un taglio imprevisto a centropista per l’appuntamento col destino. Si muore anche così, in diretta tv, mentre l’Italia che ha messo la sveglia fa colazione e fatica a capire. La corsa sospesa, poi cancellata è il primo brutto segnale. L’altro, quello che inchioda alla poltrona anche gli ottimisti, è l’elicottero che non decolla verso l’ospedale. Cinquanta minuti al centro medico a cercare disperatamente una reazione, prima dell’annuncio ufficiale, quello che ogni appassionato cancellava continuamente dal cervello, ma che pesava sul cuore nel vedere e rivedere quella sequenza. Il casco che vola via come la vita di un ragazzo di 24 anni, personaggio nel suo essere antidivo. Guascone, romagnolo, simpatico e irreverente perché dai campioni come Valentino si prende su di tutto, ma è da Marco che un circo fenomeno e musone ha capito che si può correre e vincere anche da persona normale. Spesso goffa, sgangherata e divertente a ricordare tra sponsor milionari e missili di ferro la passione di un ragazzo che fondamentalmente corre perché si diverte. Fin da bambino, dinoccolatamente a cavallo delle minomoto. Titolo italiano ed Europeo di 125 prima dello sbarco nel motomondiale. Giovanissimo. Nel 2004 ad Jerez la prima pole e la prima vittoria in carriera, nel 2006 la 250 più confacente alla sua stazza. Nel 2008 da promessa a campione, con la conquista del Mondiale 250. Nel 2010 la Motogp, una nuova era, la consacrazione, si diceva, che sarebbe arrivata dopo un anno di gavetta. Gli dei cattivi che regolano i tributi di sangue nello sport gli hanno tolto il tempo. E prima delle solite polemiche sulla sicurezza, gli hanno spento il sorriso. Che è quello che ci manca e mancherà di più.

Roberto Chiesa

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