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Don Mangiarotti: Vincere il lockdown con l’amicizia e la compagnia

9 nov 2020
Don Mangiarotti: Vincere il lockdown con l’amicizia e la compagnia

È curioso osservare che quanti si proclamano aperti, democratici e, soprattutto in questi tempi, «misericordiosi», brillino per la loro intolleranza e incapacità di accoglienza di chi esprime posizioni diverse: è il brutto segno del passaggio «dall’avversario al nemico». Viene in mente quanto affermava s. Giovanni Paolo II «All’alba del Terzo Millennio la democrazia deve affrontare una grave questione. Esiste infatti la tendenza a considerare il relativismo intellettuale come il corollario necessario di forme democratiche di vita politica. […] Quanti sono convinti che certe verità siano assolute e immutabili vengono considerati irragionevoli e inaffidabili. D’altro canto, in quanto cristiani crediamo fermamente che “se non esiste nessuna verità ultima la quale guida ed orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia”». Questo appare il tempo della verità e della persecuzione (pure di quella «gentile» o educata preannunciata da Papa Francesco): il tempo di una verità che va testimoniata senza paura e una persecuzione che denuncia continuamente coloro che non si piegano come intolleranti, oscurantisti, medievali, mostruosi, reazionari e altri epiteti usuali (spesso al limite della querela). Il compito che in questo tempo ci deve tenere occupati riguarda soprattutto l’educazione. I nostri ragazzi e i nostri giovani hanno bisogno di testimoni che mostrino la convenienza umana della fede, che sa valorizzare quanto l’uomo è capace di operare (Gesù diceva «etiam etnici hoc faciunt» per significare che dobbiamo superare quanto già per natura siamo capaci di compiere, con quella «marcia in più» che la fede sa donare agli uomini) ma soprattutto realizzi quel bene che rende possibile la giustizia tra noi. Educare significa aprire orizzonti, rendere protagonisti, agire come fattori di pace e rispetto, lucidi testimoni della verità che, sola, saprà renderci liberi. Certo, questo non è facile nel contesto civile (e talvolta religioso) nel quale operiamo. La scuola, con il suo «distanziamento sociale», a lungo andare vedrà conseguenze negative (basta pensare alla sciocca derisione di quel politico nei confronti di quella bambina che desiderava andare a scuola, per imparare e per incontrare i compagni). La catechesi rischia di essere un optional legato alla recezione dei sacramenti (dimenticando la straordinaria intuizione di viverla in continuità con i tempi liturgici). I rapporti saranno (come già sta accadendo) segnati dal sospetto e dalla diffidenza. Credo che allora l’invito del nostro Vescovo nella lettera del Programma pastorale «Essere speranza in un mondo ferito» sia la strada da percorrere, in ogni ambito: «In questo mondo ferito, anche noi ci troviamo poveri e fragili. Dobbiamo forse insegnare qualcosa a qualcuno? Noi per primi abbiamo bisogno di essere evangelizzati. Perché, in famiglia o in piccoli gruppi, non ci mettiamo in ascolto della Parola, nella calma e nel silenzio? Questo ascolto orante fa maturare la dimensione spirituale: da intimista a solidale, da individualista a fraterna, da locale a universale.» Allora, se i rapporti comuni tra noi, in primis la famiglia, diverranno luogo di ascolto, dialogo, testimonianza della verità, giudizio di fede, allora, credo, la speranza non sarà morta. Quanto abbiamo appreso dalla vita di s. Giovanni Paolo II, che, in periodo di lockdown politico per la presenza dei totalitarismi neri e rossi, animava gruppi di bellezza e di recitazione per non dimenticare l’essenziale, potrebbe essere la cifra concreta della nostra rinascita.

Don Gabriele Mangiarotti


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